My grandma has never been too curious, or maybe she is even a bit too much, like all grandmas are, only about the things she can understand.
Regarding the rest, she just nods and keep the adequate distance.
She’s okay with knowing that I’m fine and that’s usually enough for her.
She doesn’t really care if I have a boyfriend, if I eat too much or not enough or the kind of job I’m doing in that moment.
I’ve always been wondering about this side of my life, I work in the communication field since one year almost and my parents don’t know what my job is about yet.
Not that I have an idea myself, honestly speaking.
If for a 50 something parent social networks are a sort of criminal organizations incubator and cyber bullying space, what do they represent in the mind of my 80 something grandma?
What is she gonna do about them?
My grandma, a woman that about my studies only figured one thing out: “she didn’t want to become a primary school teacher”.
One day I finally decided to tell her a bit about what I do to pay my bills.
At least let’s say I tried.
“Grandma, you know the commercials they play on tv?
That kind of communication is also on the internet now.
There are special places where people study strategies to communicate to people and create companies’ commercials.”
Grandma: “I only follow Frizzi and those cooking people… Linea Verde, Mengacci.”
“Ok, but you know the commercials between one show and the other?”
“Ah! The pots commercials!”
“Here you go… let’s take those for instance.”
“What is it that you do with pots?”
“Well, nothing apart from cooking.”
“And what do you cook exactly?”
“Pasta, but this doesn’t matter. You see on these internet channels there are advertisements like the pots ones. Ah yes, you don’t have a computer…”
“Ah in the computer! Your aunt has one, she shows me pictures of her holidays sometimes, not pots pictures though.”
“Ok grandma. You know the internet?”
“My sister in Canada used it once, also the other one in Argentina… Do you know Pierina died?!”
“Yes, grandma, I know. But maybe her nephews still use it.
“As you use it?”
“Yes, probably, everybody uses internet. I work with it.”
“And what do you do? You send messages?”
“Well, also. I send emails and I answer to users asking me explanations or posing me questions.”
“Also when I was working they were asking me a lot of questions. But I wasn’t really paying attention you know…. those crazy people. Not everyone though, some of them were there because someone decided to and their questions weren’t stupid… Do they ask you stupid questions?”
“Well yes, in the majority of cases.”
“That sucks! No, some of them weren’t stupid at all, they figured that there wasn’t their place. They were completely right.”
“It wasn’t easy for all of you I guess…”
“But we were having fun! They were a lot of fun you know! Of course there was some crazy one, maybe violent too and it was scary. At that point the men would come and tie him up.”
“And then what would happen?”
“They would go to a room. The problem was that we were on an island. Everyday, going back and forth with the train and the ferry.
Piazzale Roma- Riva degli Schiavoni- San Clemente.
Everyday, up and down the bridges for an innumerable amount of times.”
My grandma was a nurse a at the psychiatric hospital in San Clemente island, located in the Venice laguna, just between Giudecca and Lido.
There was just that back then: the hospital, inaugurated on the 1st of july 1873, initially born as a feminine asylum. The island was close to the San Servolo one, where I was going to student parties in my 20s. San Servolo was also a treatment centre, and you can still see it now, looking at the high white walls which give you goosebumps in the daytime.
San Clemente is another story, hosting now a 5 star plus hotel from the Kempinski group. There’s nothing led of the hospital were my grandma worked for 20 years, going back and forth everyday, first with the train and then with the ferry: Piazzale Roma- Riva degli Schiavoni- San Clemente.
She always talks very comfortably about that period of her life.
At that time, her job was as any other and so I guess it’s mine now.
Or maybe not.
Words by Sofia Tieppo.
Images by Giulia De Marchi.
Translation by Amanda Luna Ballerini.
ITA
Ho cercato di spiegare il lavoro che faccio a mia nonna, ma è stata lei alla fine a spiegarmi il suo.
Mia nonna non è mai stata una tipa troppo curiosa, anzi lo è eccome, come tutte le nonne, ma solo sulle cose che può capire. Sul resto acconsente e tiene le distanze.
A lei, tendenzialmente, basta sapere che sto bene.
Le interessa poco che io abbia o meno un fidanzato, se mangio troppo o troppo poco e che tipo di lavoro che sto facendo. Questa cosa mi ha sempre incuriosita, lavoro nella comunicazione da più o meno un anno e ancora ora i miei genitori non hanno un’idea ben chiara di ciò che faccio. Nemmeno io, per dirla tutta. Ma se per un genitore cinquantenne i social network sono incubatori di organizzazioni criminali e cyberg bullismo, una nonnina ottantenne non sa neppure dove girarsi. Lei che dei miei studi ha capito solo che “non voleva diventare maestra”. Quindi, un giorno mi sono messa a spiegarle che cosa facevo per pagarmi le bollette. O almeno c’ho provato.
“Nonna, hai presente quanto in televisione passa la pubblicità? Ecco, quel tipo di comunicazione ora si fa anche su internet. In alcuni specifici canali delle persone studiano delle strategie per la comunicazione e la pubblicità di alcune aziende.”
Lei: “io seguo solo Frizzi e quei là de cucina… Linea Verde, Mengacci.”
“Ok, ma tra un programma e l’altro c’è la pubblicità, hai presente?”
“Ah, quelle delle pentole!”
“Ecco, diciamo di sì dai.”
“Cosa fai con le pentole?”
“Beh, nulla, oltre a cucinarci.”
“E che ci cucini?”
“La pasta, ma non importa. Vedi, su questi “canali” di internet ci sono delle pubblicità, come quelle delle pentole. Sì, perché non hai il computer…”
“Ah ma nel computer! Tua zia ha il computer, ma mi mostra le foto che fa quando viaggia, non le pentole.”
“Ok… nonna hai presente internet?”
“Mia sorella del Canada na volta l’ha usato, anche quella dell’Argentina. Ma lo sai che la Pierina è morta?!”
“Si nonna, lo so, ma forse i suoi nipoti lo usano ancora.”
“Come fai te?”
“Probabilmente si, tutti usano internet. Io ci lavoro a stretto contatto.”
“E cosa fai? Mandi i messaggi?”
“Beh, anche, mando le mail e rispondo agli utenti che mi chiedono spiegazioni o mi fanno domande.”
“Ah, anch’io quando lavoravo, mi facevano un sacco di domande. Ma io non li stavo ad ascoltare, quelli là, erano matti. Non tutti però, alcuni ci stavano perché qualcuno aveva deciso che dovevano starci e le loro domande non erano stupide. A te fanno domande stupide?”
“Beh sì, la maggior parte dei casi.”
“Che rottura! No no, alcuni non erano affatto stupidi, capivano benissimo che quello non era il loro posto. Insomma, avevano la ragione. “
“Non era per niente facile immagino, neppure per voi.”
“Ma noi ci divertivamo, erano simpatici sai! Certo, qualche matto c’era davvero, e a volte anche violento, da aver paura. Allora arrivavano gli uomini e lo legavano.”
“E cosa succedeva? “
“Andavano in una stanza. Ma il problema era che eravamo su un’isola. Tutti i giorni, avanti e indietro con il treno e poi il vaporetto. Piazzale Roma-Riva degli Schiavoni – San Clemente. Ogni giorno, su e giù per i ponti non sai quante volte.”
Mia nonna era infermiera all’ospedale psichiatrico nell’Isola di San Clemente, nella laguna di Venezia, proprio tra la Giudecca e il Lido.
C’era solo quello: l’ospedale, inaugurato il 1 luglio 1873, inizialmente era stato manicomio femminile.
L’isola era vicina a quella di San Servolo, dove a 20 anni andavo alle feste studentesche.
Anche San Servolo era un luogo di cura, lo si vede ancora, dalle mura alte e bianche che di giorno mettono i brividi.
San Clemente invece è tutto cambiato, ora sorge un Hotel di lusso a 5 stelle gestito dal gruppo Kempinski, non è più rimasto nulla dell’ospedale, quello in cui mia nonna ha lavorato per 20 anni, andando avanti e indietro ogni giorno prima con il treno e poi con il vaporetto: Piazzale Roma – Riva degli Schiavoni – San Clemente.
Ne parla sempre con molta disinvoltura, alla fine per quei tempi il suo era un lavoro come un altro, come il mio ora. O forse no.
Testo a cura di Sofia Tieppo.
Foto di Giulia De Marchi.
Traduzione a cura di Amanda Luna Ballerini.